storia

Il Sinodo. La via principale di Marano, ricorda ancora con il suo nome, il più importane fatto del passato, avvenuto a Marano: il Sinodo. Marano quindi, per essere in grado di ospitare un simile consesso, doveva essere una comunità cristiana già fiorente e doveva possedere chiesa ed attrezzature sufficienti allo scopo. Colui che indisse il Sinodo era il patriarca di Aquileia, Severo, che a quei tempi (eravamo nel periodo delle invasioni dei longobardi) risiedeva a Grado. Convocò i vescovi per spiegare la sua posizione nei confronti della famosa disputa, che dilaniava la chiesa: la «controversia dei tre Capitoli». Questa, che aveva preso il nome degli scritti di Teodoro, Teodoreto e Iba era nata come disputa teologica riguardante il modo di intendere alcune verità di fede professate nel Credo, ma poi per le posizioni controverse assunte da Bisanzio e da Roma, era diventata con il passare degli anni una questione di sottomissione al Papa (a Roma) o di unione al patriarca di Costantinopoli, che già forte della sua grandezza e dello splendore dell’impero d’Oriente, di mal grado vedeva la sua sudditanza a Roma.
Il patriarca Severo, a Ravenna, in seguito a maltrattamenti e ad imprigionamento, perpetrati dall’Esarca Smeragdo, aveva dovuto sottomettersi al Papa. Ritornato a Grado, trovò grande ostilità nel popolo, che non volle riceverlo finché non avesse ritrattato l’abiura. Fu così che radunò i vescovi suffraganei a Marano e qui dichiarò che l’abiura ai tre Capitoli, fatta a Ravenna, gli era stata strappata a forza, che Egli l’aveva fatta, solo apparentemente, per liberarsi dalla prigione e che intendeva perseverare nel riconoscimento della posizione dottrinale di Costantinopoli, e quindi nella separazione da Roma. Fu questa, dopo molte dispute, anche la posizione dei vescovi intervenuti, i quali preferirono, non tanto per motivi dottrinali, quanto per motivi politici, stare con la potente Bisanzio, che con la decadente Roma. Per questo motivo di insubordinazione e di non comunione con Roma e con il Papa, il Sinodo di Marano è annoverato fra i sinodi sismatici. Lo scisma della Chiesa di Aquileia con Roma, però non durò a lungo, in quanto pochi anni dopo il patriarca Severo ritrattò la sua eresia e si sottomise al Papa.

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Il circuito delle mura era di 620 passi, con 90 di questi nel lato nord, che era il più ridotto dei tre. Sopra le mura, oltre alle fortificazioni, costituite da bastioni e baluardo, c’era un camminamento che consentiva alle sentinelle, che facevano la guardia giorno e notte, di adempiere al loro servizio di vigilanza lungo tutto il giro della fortezza. La bestia nera della fortezza era la rocca di Maranutto opposta dagli Arciducali a poche centinaia di passi dal bastione di Marano, con pochissimi soldati, ma sufficienti, dato il posto strategico, ad infastidire la difesa e la navigazione veneta nella laguna e a taglieggiare il piccolo commercio di cabotaggio locale e quello altresì di rifornimento tra i centri interni della Patria (Palma) e la laguna veneziana.

Decadenza Veneta. Allontanatisi i difficili momenti del ’400 e ’500, l’interesse del governo centrale di Venezia per i problemi militari della fortezza di Marano venne man mano attenuandosi. Fu così che negli anni che vanno dalla fine del ’500 alla caduta della Repubblica, la fortezza di Marano andó via via deteriorandosi per l’imbonimento del canale circostante, e per la mancanza di scavi e di lavori di ripristino a mura e bastioni, che si deterioravano man mano che il tempo passava.

La definitiva demolizione. Cessato alla fine del ’700 il dominio veneto, lo stato di salute della fortezza è andato sempre peggiorando per il mancato intervento nelle riparazioni. Nemmeno gli scarsi interventi che i provveditori veneti operavano ogni tanto, vengono ora apportati dai nuovi padroni in tutt’altre faccende affaccendati. Allo scarso rilievo ed importanza che la fortezza viene man mano avendo, si aggiungono nell’800 anche delle grandi epidemie, quali quella del 1836 e del 1886, che decimano la popolazione e che rendono Marano, colpito anche dalla miseria e dalla scarsità d’acqua, una località di impossibile abitazione. Sono questi i motivi che costringono il sindaco Rinaldo Olivotto, un uomo corraggioso e per certi aspetti lungimirante, vedasi ad esempio la costruzione dell’acquedotto e della pescheria, a chiedere e ad ottenere per la pubblica salute l’abbattimento delle mura, che impedivano l’areazione e che facilitavano con l’acqua stagnante il ripetersi delle epidemie. Era l’anno 1890, l’anno della morte definitiva di una fortezza che per un millennio circa, era stata una vigile sentinella dell’alto Adriatico.

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Il giorno 13 dicembre 1513, con il pretesto di andare a caccia, si fece dare le chiavi delle porte; uscito, diede il segnale convenuto agli imperiali che attendevano poco lontano ed essi forti di 200-250 cavalli boemi entrarono impetuosamente nella fortezza e se ne impadronirono. Al capitano ed ai soldati, pochi in verità, che presidiavano la fortezza, non restava altro che darsi alla fuga. I tentativi fatti successivamente dal Senato veneziano di riprendere Marano andarono a vuoto, perché gli imperiali avevano nel frattempo rinforzato notevolmente, con uomini ed artiglierie, la guardia della fortezza. Con il trattato di Worms o «Pace di Wormazia» del 1521, Venezia tentò di riprendersi Marano, nelle varie contropartite e trattative, con l’offerta di una ingente somma di denaro, ma gli imperiali furono irremovibili e si tennero ben salda la fortezza. Non a caso a Marano una calle del centro storico porta ancora ai giorni nostri il nome di «Vormazia».

Di nuovo e definitivamente sotto Venezia nel 1543. Dove a nulla era valso il ricorso alle armi, dove erano fallite le trattative ed i mercanteggiamenti, ebbe buon fine invece l’ardimento e l’astuzia di tre capitani di ventura, Beltrame Sacchia di Udine, Giuseppe Cipriani di Brescia e Bernardino de Castro di Pirano, i quali la notte del 2 gennaio del 1542, fingendosi mercanti di grano, introdussero nel canale una barca piena di armati e riuscirono ad occupare Marano. In fortezza fu opposta ai nuovi venuti una fiera resistenza, ma a nulla valse, anche perché per terra da Muzzana giunsero al Sacchia in aiuto ben 163 soldati. I soldati imperiali che presidiavano la fortezza furono rinchiusi come prigionieri nella chiesa parrocchiale di S. Martino (che sorgeva nel medesimo luogo dell’attuale) mentre il Sacchia, diventato padrone della situazione, offriva la fortezza ad un altro famoso capitano di ventura, Pietro Strozzi, il quale essendo ai servizi del Re di Francia e da questi pagato, inalberò la bandiera di Francia sulla fortezza. Pietro Sacchia rimase per qualche tempo a Marano come capitano della fortezza alle dipendenze dello Strozzi.

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L’imperatore Ferdinando d’Austria, che mal sopportava la perdita della fortezza, fece munire un piccolo forte, chiamato Maranutto, onde poter con l’artiglieria abbattere i bastioni di Marano. Frattanto Pietro Strozzi inviava a Venezia un certo Giovanni dei Pazzi, con il compito di mercanteggiare la fortezza, facendo astutamente intendere di cedere in caso negativo la medesima ai turchi. Fu così che lo Strozzi riuscì ad avere la bella somma di 35.000 ducati dal Senato veneto, che riottenne definitivamente il possesso tanto agognato della fortezza di Marano. Ciò avvenne il 29 novembre 1543. Le avventure di Beltrame Sacchia, Pietro Strozzi e Guidobaldo di Urbino rivivono anche ai giorni d’oggi nelle vie che a questi personaggi sono dedicate. Dopo questi avvenimenti e fino alla caduta della Repubblica di Venezia (1797), Marano rimase sempre sotto il dominio veneto. Avvenimenti importanti riguardanti Marano, la storia non ne registra. Ciò fa supporre che Marano, governato con saggia politica dai veneziani, abbia potuto finalmente godere un lungo periodo di pace e di prosperità, quali nella sua storia, più che millenaria, mai aveva conosciuto.

Lenta morte di una gloriosa fortezza. Struttura esterna: La fortezza nata sotto Popone, come baluardo difensivo del dominio patriarcale, ebbe il suo maggiore splendore nei secoli XIV, XV e XVI, quando il suo possesso strategico era maggiormente ambito e con-
teso. Nel 1540, anno nel quale Giovanni Cortona ha dipinto la pianta più importante che esista (essa è conservata nell’archivio dei Savi di Venezia), la fortezza si presentava come un baluardo e una rocca di rara bellezza, posta come un’isola inespugnabile sul limitare della laguna. Aveva forma più o meno triangolare con la punta a sud, chiamata baluardo di S. Antonio, con due bastioni a nord, denominati di S. Giovanni e di S. Marco, ed un bastioncino ad est.
Due porte consentivano l’uscita, una ad est detta «porta del mar» e l’altra a nord, di fronte alla terra ferma, detta, non si sa perché, «porta dell’oro». La prima permetteva ai militari l’esercizio della difesa sul mare ed ai pescatori locali l’attività della pesca, unica fonte di sostentamento degli abitanti di quel tempo; la seconda favoriva i contatti con la terra ferma, che erano per la verità molto pochi.

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Una fortezza contesa. L’epoca considerata – i primi quattro secoli di questo millennio – corrisponde al periodo aureo del dominio patriarcale in Friuli e con esso della indipendenza del Friuli. In questo periodo, il patriarca di Aquileia, come principe temporale, era soggetto solo all’imperatore del cosidetto «Sacro Romano Impero» ed aveva la piena sovranità sui suoi territori.
Il patriarca veniva eletto dal Capitolo di Aquileia, ma riceveva dal Papa l’investitura canonica e dall’imperatore l’investitura feudale. Il patriarca, come in genere i sovrani feudali, non aveva residenza stabile, ma dimorava in uno dei suoi castelli, sparsi in tutto il Friuli. Per i patriarchi, la fortezza di Marano, ampliata e strutturata militarmente dal grande Popone, era un punto di forza contro i nemici provenienti dal mare, in modo particolare contro la Repubblica di Venezia, che già da allora mirava, con tutti i mezzi leciti ed illeciti, a farla sua per avere dominio incontrastato sull’alto Mediterraneo. La storia di questi secoli, per Marano, è una storia di lotte, di accaniti combattimenti, di lunghi assedi di tradimenti, di rivolte e di sangue...

Sotto il dominio della Serenissima.
Giunta con fatica, al possesso di Marano, Venezia cercò subito, dal punto di vista militare, di rendere efficienti tutte le opere di difesa e, dal punto di vista amministrativo, come usava fare in tutte le annessioni, di rispettare le franchigie municipali, gli ordinamenti, gli statuti e le consuetudini vigenti. Così anche Marano vide rispettato il suo statuto, che in via amministrativa, politica e penale era quello concessogli da Popone. Ciò non poteva che piacere alla popolazione, che così vedeva valorizzata la sua antica autonomia.

Invasione dei turchi. Nel 1470 Marano viene fortificata da una forte squadra di balestrieri navali, data la sua posizione sul mare, posta di fronte al valico alpino per il quale i turchi calavano dall’Illiria in Friuli. In virtù di questa fortificazione nel 1578 I’armata preposta alla difesa di Marano impedì l’espandersi in Friuli dei turchi condotti da Omar Bey. Una calle di Marano si chiama ancora «Turchia» e forse questa denominazione è da collegarsi con l’invasione dei turchi condotti da Omar Bey e con il valore dei veneti nel ricacciarli.

Ritorno di Marano sotto il dominio imperiale.
Ciò che gli imperiali non erano riusciti a fare con le forze militari, anche per il valore e la capacità dei capitani veneti della fortezza, riuscirono con il tradimento. A concepirlo e a portarlo a compimento fu un certo «Bortolo» da Mortegliano, sacerdote più dedito agli intrighi politici, che ai ministeri pastorali.

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Il dominio dei patriarchi. Il nome di Marano ricompare nel celebre documento da tutti conosciuto col nome di Privilegium Poponis che reca la data del 14 luglio 1031. Il grande patriarca Popone, statista, guerriero legislatore e riordinatore del dominio patriarcale aquileiese, volle il paese di Marano come la più importante difesa del patriarcato dalla parte del mare. Ed elevò Marano, che allora era una piccola villa di Aquileia, ad un grado superiore: la fortificò per mezzo di alti e robusti terrapieni, la dotò di molini e di saline, e la favorì di particolari statuti, che forse si conservarono a lungo e servirono di indirizzo per la compilazione degli altri statuti speciali per Marano, emanati più tardi dalla Signoria di Venezia. A dimostrare che il patriarca Popone elevò Marano al grado di comunità di certa importanza, sta il fatto che Marano, a mezzo del suo rappresentante, aveva il diritto di sedere in parlamento, autorità che le venne poi tolta dalla Repubblica di Venezia. La comunità di Marano, come quella di Aquileia, era governata da un podestà.

La pieve di Marano donata al Capitolo Aquileiese. La pieve di Marano, fino all’epoca delle prerogative e dei privilegi ad essa concessi dal patriarca Popone, era sempre stata sotto la immediata giurisdizione dei patriarchi d’Aquileia, i quali esercitavano, come si è detto, il loro potere di principi per mezzo del podestà, e la loro autorità ecclesiastica mediante un sacerdote loro rappresentante, che incaricavano della cura spirituale delle anime. Il patriarca Popone, dopo aver abbellito, fortificato e dotato di tanti privilegi la terra di Marano, con il suo celebre Privilegium del 14 luglio 1031. In base a questa donazione, che dal munifico patriarca era stata fatta al capitolo in segno di affetto e di stima, il Capitolo Aquileiese esercitava sulla pieve di Marano tutti i diritti di padronanza e di giurisdizione ecclesiastica; al medesimo capitolo dovevano perciò spettare il diritto di nominare il pievano, il diritto di riscuotere le decime, e tutti gli altri diritti provenienti dall’atto di donazione.

I ricordi attuali.
È poco quello che ci resta di questo periodo. Esiste però ancora in Marano una casa, che si chiama casa dei patriarchi, nella quale fino a non molti anni fa, si poteva vedere una stanza con soffitti in legno, dipinti, e con le pareti decorate a soggetti sacri, chiamata la sala del trono. La piazzetta dove si trova la casa suddetta è chiamata da tempo immemorabile «Corte dei Patriarchi». Dietro tale casa dalla parte della piazza Centrale, esisteva una chiesa detta di S. Maria, che ha avuto uso liturgico fino nel 1500 e che certamente era la chiesa dove officiava il pievano locale, incaricato alla cura delle anime dal Capitolo di Aquileia.

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Origini. La nascita di Marano, e di conseguenza il nome, si ricollega alle origini di Aquileia. Aquileia fu fondata nell’anno 181 a. C. da una colonia di 300 soldati romani ai quali si sono aggiunte più tardi nel 169 d. C. circa 1.300 famiglie romane, mandate in questa zona per impedire le invasioni barbariche. Ad alcune di queste famiglie vennero assegnate le località più importanti e strategiche da presidiare. Dal nome di queste famiglie derivarono alcuni nomi di paesi friulani come Cervignano «Ceveniano», Ontagnano «Antoniano», Clauiano «Claudio»... La famiglia, alla quale fu affidata la nostra zona, era quella di Mario. Questo fatto è ancor oggi ricordato dall’antica piazzetta centrale «Marii», che vuol dire «...di Mario». Ben presto il centro abitato si chiamò «praedium Mariani», cioè fondo o presidio di Mario. Il nome «Mariano» durò a lungo, tanto che lo troviamo citato sia nel primo documento riguardante Marano (la notizia del Sinodo, che ci viene da Paolo Diacono), come in un documento del 1239.
Con il passare dei secoli, la «i» di Mariano scomparve e così restò Marano, nome che maggiormente rendeva l’idea di una località vicina al mare. L’aggiunta lagunare è del secolo scorso. Con l’unità d’Italia infatti si rendeva necessaria una specificazione, per non confonderlo con altri Marano, che frattanto erano sorti in Italia. Questa origine romana di Marano trova la sua convalida nei resti archelogici trovati in laguna e che ora si conservano al Museo del Castello di Udine ed al Museo Municipale di Marano, dove esiste una piccola, ma importante raccolta. Un’altra testimonianza romana di Marano è costituita dai resti della via Annia, antica strada romana che congiungeva Concordia con Aquileja. Tale strada passava nella zona lagunare.

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